Pannello 5 - Approfondimento
La storia e le leggi contro le donne in Italia
Il diritto di famiglia, disciplinato dal 1865 dal Codice Pisanelli e improntato sulla supremazia maschile, precludeva alle donne ogni decisione, di natura giuridica o commerciale senza l’autorizzazione del marito o del padre. La stessa tutela dei figli era esclusiva prerogativa maschile. Lo scopo della vita di ogni donna è il figlio. Non a caso, tra i fasti imperialisti del ventennio, si annoverano le cerimonie presiedute dal Duce, con le quali le madri più prolifiche ottenevano riconoscimenti ufficiali. Fra le prime misure pro-nataliste, introdotte dal regime, va ricordata la tassa sul celibato (D. L. 2132 del 19/12/1926), mentre erano più operanti che mai le case di tolleranza.
La riforma della scuola fascista di Giovanni Gentile, Ministro dell’Educazione Nazionale (1922-1924) fu improntata su due obiettivi: inculcare nei giovani l’ideologia dello stato fascista e far accedere all’istruzione secondaria e all’Università, un numero ristretto di studenti, soprattutto non le donne. La riforma Gentile era “dichiaratamente anti-femminile”, perché “per essere pregiata, rispettata, esaltata, la donna doveva accettare e non tentare di negare i limiti della sua diversità e inferiorità”. Negando alla donna qualsiasi capacità come educatrice, l’insegnamento di molte materie fu precluso alle donne: esse non poterono più accedere ai concorsi pubblici per insegnare nei licei lettere, latino, greco, storia e filosofia o per insegnare italiano negli istituti tecnici. Un Decreto Legge del 05/09/1938, infine imponendo una riduzione al 5% del personale femminile, impiegato nella Pubblica Amministrazione, rappresentò il culmine della discriminazione sessuale.